IL VICE PRETORE
   Letti gli atti del procedimento penale r.g. n. 30041/1998, r.g.n.r.
 n. 402/1994 a carico  di  Franceschetti  Mario,  trasmessi  a  questo
 ufficio  per  un  nuovo  giudizio  dopo  la  pronuncia della Corte di
 cassazione, sezione seconda penale, resa in camera di  consiglio  con
 sentenza n. 6498 con cui annullava con rinvio l'impugnata sentenza n.
 39  del  17  febbraio  1997  del  pretore  di  Fabriano, pronuncia la
 seguente ordinanza;
   Premesso:
     che il Franceschetti veniva tratto a giudizio per il reato di cui
 agli artt. 61 n. 11 e 646 ult. comma c.p.,  poiche',  abusando  della
 sua   qualita'  di  collaboratore-rappresentante  della  ditta  Nuovo
 Argento si appropriava del campionario in argento, costituito da  sei
 portafoto,  otto bomboniere e quattro articoli da regalo appartenente
 alla predetta Nuova  Argento,  alla  quale  ometteva  di  restituirlo
 all'interruzione del rapporto di collaborazione;
     che  in  data  1  gennaio  1996  veniva  rimessa  la  querela con
 accettazione della stessa in data 9 luglio 1996 e che il  pretore  di
 Fabriano  emetteva  sentenza  di non doversi procedere per estinzione
 del reato, ritenendo non applicarsi l'aggravante di cui  all'art.  61
 n. 11 c.p.;
     che, a seguito di impugnazione del sostituto procuratore generale
 presso la Corte di appello di Ancona, la Corte di cassazione riteneva
 fondato  l'assunto del ricorrente con la conseguenza che il reato era
 procedibile d'ufficio ai sensi degli artt. 646 c.p. e 61 n. 11  c.p.,
 e  che  quindi  il  pretore  non  avrebbe dovuto emettere l'impugnata
 sentenza di procedibilita' nei confronti dell'imputato in  ordine  al
 reato   di   appropriazione  indebita  semplice,  cosi'  erroneamente
 qualificato  il  fatto,  essendo  il  reato  estinto  a  seguito   di
 remissione di querela;
     che tuttavia questo v. pretore, tanto premesso, ritiene rilevante
 e   non   manifestamente   infondata  la  questione  di  legittimita'
 costituzionale  dell'art.  646,  ultimo  comma  c.p.  o  puramente  e
 semplicemente ovvero, nel caso in cui la Corte costituzionale ritenga
 non   fondato  il  dubbio  di  costituzionalita'  cosi'  come  appena
 prospettato  dell'art.  646,   ultimo   comma   c.p.,   limitatamente
 all'omessa  previsione del giudizio di equivalenza o prevalenza delle
 circostanze attenuanti rispetto all'aggravante di  cui  all'art.  61,
 n.11 c.p. ai fini di escludere la procedibilita' d'ufficio.
   In  punto  di rilevanza sul presente procedimento, va osservato che
 l'applicazione o meno della norma di cui sopra risulta  decisiva,  in
 quanto  nel  caso  di  totale abrogazione dell'ultimo comma dell'art.
 646 c.p., per incostituzionalita',  al  pretore,  salvo  il  caso  di
 assoluzione  nel  merito,  che  allo  stato non risulta in alcun modo
 dagli atti e che  comunque  appartiene  ad  una  fase  successiva  di
 decisione la quale presuppone l'aver risolto in un senso o nell'altro
 la  prospettata questione, non rimarrebbe che dichiarare l'estinzione
 del reato.  Nel caso di incostituzionalita' solo parziale, cosi' come
 subordinatamente prospettato, va osservato che la merce  oggetto  del
 contestato  reato appare di valore modesto e d'altro canto l'imputato
 ha solo un lieve precedente, risalente  al  1988,  per  emissione  di
 assegni  a  vuoto  (lire  centomila di multa irrogate) e pertanto ben
 difficilmente potrebbe in ipotesi  negarsi  la  concedibilita'  delle
 circostanze   attenuanti   generiche   con   giudizio  quantomeno  di
 equivalenza sull'aggravante contestata.
   Venendo ora ad esaminare nello specifico le due distinte  questioni
 di legittimita' costituzionale, va osservato in ordine alla prima che
 costituisce  insegnamento  piu' volte ribadito dalla stessa Corte che
 il legislatore, nel prevedere la perseguibilita' o meno a querela  di
 una  faffispecie  di  reato,  svolge  una  valutazione che appartiene
 all'ambito che gli e' proprio e che pertanto non puo' formare oggetto
 di censura: in maniera non dissimile e' stato argomentato  quando  la
 perseguibilita'  o  meno e' legata alla sussistenza di un'aggravante,
 posto che numerose sono le ipotesi normativamente previste in cui  la
 perseguibilita'  d'ufficio  e'  collegata proprio alla sussistenza di
 un'aggravante. Tuttavia e' stato sempre sottolineato il limite a tale
 discrezionalita' del legislatore, che e' quello della ragionevolezza.
   Orbene, non  appare  in  alcun  modo  ragionevole  il  privilegiare
 solamente  il  rapporto fiduciario a tutela del quale e' posto l'art.
 61 n. 11 c.p., rispetto a  tutte  le  altre  situazioni  che  possono
 costituire   aggravante   e  che  non  hanno  lo  stesso  trattamento
 normativo. Ad esempio, il danno patrimoniale di rilevante entita'  di
 cui  all'art.  61  n.    7)  puo' provocare un grave allarme sociale,
 quando le persone offese siano numerose o quando la  persona  offesa,
 benche'  unica,  rivesta  una particolare qualita', tale che il danno
 nascente da reato possa ripercuotersi in una vasta sfera di  soggetti
 (come  nel  caso  che l'approprizione indebita, di rilevante entita',
 sia in danno di un  istituto  bancario).    Ma  anche  per  le  altre
 aggravanti  si potrebbero fare esempi di disvalore del fatto, i quali
 non meriterebbero  in  alcun  modo  di  essere  pretermessi  rispetto
 all'aggravante di cui all'art. 61, n. 11 c.p..
   Se  poi si volesse porre l'accento sul particolare collegamento tra
 il  tipo  di  reato  e  l'aggravante   privilegiata   (appropriazione
 indebita-rapporto  fiduciario),  va  osservato  che l'ambito dei casi
 concreti entro il quale puo' sempre ritenersi sussistente la predetta
 aggravante e' eccessivamente eterogeneo, di talche' il rapporto preso
 in  esame dall'aggravante stessa ha una valenza del tutto generica ed
 inidonea a fondare il collegamento ipotizzato.
   In ogni caso, sarebbe razionale il prospettare una  perseguibilita'
 d'ufficio  quando  la  particolare debolezza della persona offesa dal
 reato farebbe logicamente presumere la possibilita' di  pressioni  in
 relazione  alla  proposizione  o  la  remissione  della  querela,  ma
 l'aggravante viene in rilievo anche se l'approfittamento del rapporto
 avviene per quel soggetto in posizione piu' debole. Si  pensi  ad  un
 rapporto  di  lavoro  di qualsiasi tipo e anche subordinato o di c.d.
 parasubordinazione (com'e' nella fattispecie  in  esame)  in  cui  il
 reato sia commesso dal prestatore d'opera.
   Circa  la  seconda  questione,  avanzata in via subordinata, questo
 giudice prende le mosse  dell'orientamento  assolutamente  dominante,
 secondo il quale, qualora la perseguibilita' o meno d'ufficio dipenda
 dalla  sussistenza di un'aggravante, il giudice non puo' procedere al
 giudizio  di  prevalenza  o  equivalenza  di  eventuali   circostanze
 attenuanti  rispetto  all'aggravante per escludere la procedibilita'.
 Anche in questo caso, come in quello  sopra  esaminato,  abbiamo  una
 circostanza  che  fa  irragionevolmente  aggio su altre, ma in questo
 caso non sulle altre aggravanti bensi sulle attenuanti che potrebbero
 essere oggetto del giudizio di comparizione.
   Non sembra decisiva, sotto quest'ultimo profilo, la  considerazione
 che  la  condizione  di  procedibilita'  attiene  al rito, laddove il
 giudizio di comparizione tra le circostanze attiene alla  valutazione
 del  merito  della  fattispecie.  Infatti, se la valutazione circa la
 sussistenza  o  meno  dell'aggravante,  rilevante   ai   fini   della
 procedibilita',  puo'  appartenere  a qualsiasi fase del procedimento
 penale (ed essere sicuramente oggetto di valutazione  gia'  da  parte
 del  p.m.  che  procede),  non si vede perche' tale valutazione debbe
 essere preclusa in relazione  alla  comparizione  delle  circostanze,
 finalizzata   a  valutare  se  cio'  abbia  o  meno  incidenza  sulla
 procedibilita' d'ufficio.
   D'altro canto, la circostanza del reato, per definizione,  sussiste
 sempre  se  ed  in  quanto  esiste  il reato stesso, e va valutata in
 relazione ad esso, cosicche' non esiste mai una valutazione  autonoma
 della  circostanza  in  se'  e  per  se' considerata. Di conseguenza,
 sarebbe  artificioso  il  voler   ipotizzare,   strutturalmente,   la
 necessita'  di  tale  autonoma  valutazione  in riferimento alla sola
 questione di  procedibilita'.    Va  osservato,  in  merito,  che  il
 legislatore  stesso  si  e'  preoccupato  di escludere il giudizio di
 comparizione tra le circostanze  proprio  in  relazione  a  cause  dl
 estinzione  del  reato  (cfr. art. 4, d.P.R.   12 aprile 1990, n. 75)
 laddove questo  e'  stato  il  suo  preciso  intento.    Mentre,  per
 converso,   e   sempre  in  relazione  ad  una  causa  estintiva,  la
 comparizione e' stata ammessa esplicitamente dall'art. 157, comma  3,
 c.p.
   Cio' significa che, dal punto di vista teorico, comparizione tra le
 circostanze e pronunce giurisdizionali a carattere preliminare, e non
 di merito, sono perfettamente compatibili.
   Pertanto,  entrambe le questioni prospettate risultano attinenti ad
 una  violazione  dell'art.  3   Cost.,   costituendo   la   normativa
 denunciata,  per  le ragioni esposte, una violazione del principio dl
 ragionevolezza e di uguaglianza, configurando la  necessita'  di  una
 sanzione  penale  rispetto ad ipotesi che ricevono un trattamento del
 tutto sproporzionato rispetto al livello di disvalore  obiettivamente
 rinvenibile   in   esse  nonche'  comparabile  con  quello  di  altre
 fattispecie.